I riti di caccia dei popoli siberiani: introduzione

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La caccia, per i popoli arcaici, non è un’attività meramente tecnica come lo è per l’uomo moderno. Essa forma un insieme ben più complesso, che abbraccia gli ambiti più diversi e i sentimenti che mette in gioco, sono di tutt’altra natura.

La caccia non è un lusso, ma una questione di vita o di morte che implica, da parte del cacciatore, un’attenzione, una concentrazione, una serietà fatalmente estranea al cacciatore moderno.

Non è un semplice duello tra uomo e bestia, dove l’uomo ha saputo garantirsi una schiacciante superiorità tecnica. Gli avversari non si scontrano in singolar tenzone: dietro l’animale, il cacciatore scorge una schiera di forze soprannaturali pronte a intervenire contro la sua irruzione nel loro dominio.

I ruoli sono quindi invertiti: l’uomo, inerme, si batte in condizioni di inferiorità contro un avversario più grande di lui. Affronta un guerriero le cui doti non sono affatto inferiori alle sue, protetto da potenze superiori e che deve acconsentire alla propria uccisione. Se dovesse contare solo sulle sue forze, l’uomo non oserebbe nulla, perciò non sottovaluterà l’importanza della tecnica, non mancherà di addestrarsi nel maneggio delle armi, di sviluppare forza e agilità. Studierà le abitudini degli animali, i luoghi che frequentano, le date delle migrazioni, riconoscerà le tracce più impalpabili, saprà esattamente dove piazzare le trappole, tendere lacci e compiere un’imboscata. I suoi sensi si affineranno quanto quelli degli animali e tuttavia, per il successo della sua impresa, non farà affidamento solo sulle sue capacità fisiche. Da sola, la tecnica non può nulla; resta letteralmente morta se non è affiancata dai riti appropriati. Tecnica e magia sono indissolubilmente legate, ma è quest’ultima a conferire alla prima la sua efficacia, poiché essa è la forza che guida il braccio dell’uomo, che imprime all’arma la direzione giusta, che l’affonda nel corpo dell’animale, che fa scattare la trappola sulla preda.

Addentrandosi nella terra selvaggia, l’uomo deve trovarsi in uno stato di grazia, come il sacerdote che si accosta al sacrificio. A tale stato di grazia, giungerà solo in seguito una serie di osservanze di carattere positivo come offerte, preghiere e purificazioni o negativo, ovvero, interdizioni. La caccia propriamente detta, è l’esito di lunghi preparativi in cui le preoccupazioni di ordine religioso e magico svolgono un ruolo importante. Di pari importanza saranno i riti successivi all’uccisione, che ripristineranno l’ordine turbato della Natura.

Il cacciatore si avventura nelle migliori condizioni possibili, dopo essersi garantito le necessarie complicità o neutralità e aver ottenuto rassicurazioni dall’Altra Parte. In tal modo, l’impresa assume un’aura di legittimità: le parti hanno siglato un patto implicito, come una sorta di contratto, un permesso di caccia rilasciato da potenze superiori. In cambio dei sacrifici, le divinità concederanno selvaggina in abbondanza. Senza il sacrificio, la fortuna diserterà il cacciatore.

– Un inetto che sacrifica, prende più selvaggina di un abile cacciatore che non sacrifica, perché lo spirito concede sette volte più fortuna per un animale bruno e sette volte più fortuna per un animale nero – dicono gli Ostiachi.

La parte lasciata all’imprevisto è minima; anzi, il caso non esiste, esiste solo volontà favorevoli o contrarie, da conquistare alla propria causa. Il fallimento non potrà che essere il frutto di un malaugurato errore, dell’inosservanza di un divieto. È raro che il patto venga infranto intenzionalmente da entrambe le parti, perché nessuno ne gioverebbe, poiché il disordine è sempre funesto. Non che l’uomo obbedisca ciecamente alla legge della foresta: tra teoria e pratica vi è sempre uno scarto, un margine lasciato all’iniziativa personale. Il cacciatore cercherà così di aggirare le regole, di giocare d’astuzia con gli avversari al fine di acquisire vantaggio; nel farlo, però, è pienamente consapevole della trasgressione e non ignora i pericoli che corre. Ogni eccesso rompe l’ordine della Natura e l’equilibrio non sarà ristabilito se non al prezzo di un eccesso inverso, poiché troppa fortuna attira la sfortuna e la smoderatezza è il peggiore dei mali.

Benché spinto dalle necessità, il cacciatore non è affatto persuaso dalla legittimità del suo agire; il suo senso di colpa emerge chiaramente dalla cura con cui cerca di giustificarsi, di scaricarsi delle responsabilità, di conciliarsi con la sua vittima.

Il gruppo, nel suo complesso, ha interesse a vegliare sull’esatta osservanza delle norme, poiché l’errore di uno solo ricade su tutti e il timore delle possibili ripercussioni di ogni atto riprovevole è un argine potente alle trasgressioni.

Tra il desiderio e la sua realizzazione, la saggezza primitiva erige una barriera e mantiene una tradizione di disciplina e moderazione.

L’arte della caccia presso i popoli primitivi richiede conoscenze attinte ai differenti ambiti della tecnica, della magia, della religione, del diritto. Sono queste altrettante chiavi, necessarie per dischiudere l’accesso al reame insidioso della caccia, quella caccia ben lontana da quella praticata oggi.

Tratto e riadattato da I riti di caccia dei popoli siberiani – Èveline Lot-Falck