Uomo e Animale: una cosa sola

debitum debitum

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Dopo la morte, l’uomo passa in un altro mondo, si reincarna, va incontro a destini diversi a seconda delle credenze delle varie tribù, ma il più delle volte, dopo un certo numero di esistenze, si trasforma in animale, prima di sparire per sempre. Concezioni pressoché identiche si riscontrano, all’interno della Siberia, in due tribù situato in regioni tra loro remote, gli Ostiachi della Siberia occidentale e i Ghiliachi dell’estremità orientale. Per i primi, dopo la morte l’uomo si trasforma in una specie di scarabeo che vive sui laghi, per poi estinguersi definitivamente dopo la terza morte, mentre l’anima del defunto ghiliaco trapassa nei corpi di animali sempre più piccoli fino a diventare uccello, zanzara e ridursi infine in polvere.

Nell’età del Mito, che i popoli del nord-est chiamano Il Tempo del Grande Corvo, gli uomini erano capaci di trasformarsi in animali da vivi. Trasformazione è un termine in proprio, poiché in realtà, benché vi sia passaggio da un mondo a un altro, tra uomini e animali non c’è distinzione. La frase – Essi divennero demoni della foresta e del mare o uomini delle montagne – frequente nei racconti ghiliachi, non implica l’idea di metamorfosi, ma quella di passaggio nel mondo degli esseri soprannaturali. L’essere si proietta simultaneamente in due mondi, qui nel suo aspetto antropomorfo, lì in quello zoomorfo. Nessuna delle due personalità precede l’altra: sono entrambe autentiche e simultanee.

Penetrando nel regno degli uomini della montagna, l’eroe ghiliaco vede gli orsi e le tigri condurre, in forma umana, lo stesso genere di vita dei Ghiliachi, in villaggi dove non manca neppure la gabbia degli orsi. Il rapitore della donna ghiliaca ha lasciato vicino a casa impronte di artigli: è un orso, ma avvicinatosi alla montagna, il marito trova un uomo. Viceversa, l’uomo dal volto fasciato si rivela un orso quando incontra il figlio della Madre dell’Acqua, una volta entrato in territorio nemico.

Se l’animale, nel suo regno, è un uomo, quest’ultimo appare come animale, addirittura come una preda, quando è lontano da casa sua. In onore di questa preda, l’antropofago organizza una cerimonia che riproduce fedelmente il rituale della festa dell’orso.

L’idea stessa di metamorfosi, quando si afferma, implica solo una trasformazione superficiale, non un cambiamento di natura, varia solo l’involucro esterno; tra uomo e animale non c’é un mutamento di essenza, ma una semplice differenza di pelle, il che consente quei matrimoni così frequenti nei racconti. Per apparire in forma umana, l’animale non deve far altro che gettare la sua pelle. La tigre ghiliaca si dà una scrollata e appende la sua pelle, mentre ermellino e civetta assumono, per i Ciukci, l’aspetto dei guerrieri armati. L’anima umana veste indifferentemente la pelle d’orso, di tigre, di zibellino. Poiché tali mutamenti di forma non modificano la personalità, gli animali mantengono, sotto l’aspetto umano, certe loro caratteristiche. La forma esteriore non ha che un’importanza relativa e tale indifferenziazione è attestata, nelle raffigurazioni, da alcuni tratti che rivelano la duplice natura dell’essere rappresentato e che si sono poi conservati come attributi.

Tratto e riadattato da I riti di caccia dei popoli siberiani – Èveline Lot-Falck