ANIMALI O MOSTRI? LA PSICOLOGIA DELLA PREDA

Wild Matters

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“Noi non siamo solo spaventati dai predatori, ne siamo trafitti; ci costringono a tessere storie e discutere di loro all’infinito, perché la fascinazione produce preparazione e la preparazione sopravvivenza”. E.O. Wilson

Cos’hanno di speciale tigri, leoni, lupi, orsi e altre specie di grandi carnivori? Cosa ci attira magneticamente ad essi e, al contempo, ci atterrisce al punto da scaturire le più irrazionali tra le paure di Homo sapiens? La storia del nostro bipolarismo cronico verso i predatori è una narrazione antichissima che precede di gran lunga la prima alba africana testimone della comparsa della nostra specie. Come ha fatto notare l’etologo Hans Kruuk, quando nel cuore della savana assistiamo ad un episodio di predazione, come quello di un branco di iene che abbatte una zebra, dentro di noi vengono scosse corde interiori e sentimenti ancestrali: in tale caccia rivediamo noi stessi sia nel ruolo dei cacciatori sia in quello dei cacciati. Per comprendere il rapporto con le altre specie, dalla biofilia alla teriofobia (paura degli animali), occorre un’indagine antropologica, etologica, biologica ed evoluzionistica della nostra recente specie. Onde non perderci in troppe digressioni in questo articoletto metterò in evidenza alcune delle ragione in base alle quali, nonostante si tratti di atteggiamenti irrazionali da un punto di vista statistico, le persone saranno sempre più spaventate da squali, lupi e orsi che da assolutamente più letali incidenti stradali o conflitti con conspecifici. Tali ragioni risiedono nel nostro passato, in rarissimi luoghi ancora presente, da specie predata. Difatti, l’idea di Homo sapiens invincibile cacciatore sin dalla notte dei tempi si scontra con l’evidenza di millenni nei quali eravamo uno dei tanti possibili piatti sul menù di formidabili predatori. Ciò ha avuto conseguenze profonde nella nostra psicologia e noi nostri istinti. Laddove un individuo moderno della nostra specie si trovi faccia a faccia con un possente carnivoro, anche senza che questo abbia intenzioni aggressive, il vestito culturale dell’umano si lacera ed esso si rivela nudo, fragile, animale. I grandi carnivori, innescando sentimenti soventemente rimossi, ci possono risvegliare bruscamente dalla nostra apatia ecologica mostrandoci quanto, al di là di cultura e tecnologia, restiamo animali tra gli animali. Fatti di carne, sangue e ossa al cospetto di zanne e artigli veniamo risvegliati dal letargo della vita moderna e rispediti in una condizione, mi azzarderei a dire, primordiale. Cosa sono gli ultimi millenni al cospetto di una storia di più duecento mila anni in cui eravamo soggetti all’altrui predazione come un raccolto è soggetto alle intemperie? Essere parte del ciclo della vita era allora molto più ovvio. Dunque, come capiamo di essere così tanto “primordiali” al cospetto dei grandi carnivori? Semplice, l’etologia ci rivela dei comportamenti che tutte le specie predate mettono in atto: paura/fuga, aggressione/allontanamento del pericolo e curiosità/attrazione. I primi due comportamenti li vediamo presenti in praticamente ogni incontro con l’orso in Trentino: nonostante la scienza dica di restare immobile e parlare con tono calmo all’animale, la maggior parte delle persone si da alla fuga o reagisce contrattaccando. Evolutivamente fuga e contrattacco sono stati utili alla sopravvivenza di molte specie ma tali atteggiamenti devono essere calibrati sul comportamento del “predatore” con cui si ha a che fare. Per intenderci, nonostante l’orso bruno abbia l’aspetto di un potenziale super-cacciatore, forte e dotato di armi temibili, esso non ha l’attitudine del “mangiatore di uomini” perciò fuggire e/o attaccare è generalmente una pessima idea. Il terzo elemento, la curiosità che spinge le gazzelle di Thompson a guardare le loro compagne mentre vengono abbattute, è il più palese in Homo sapiens. Dalla narrativa, anche cinematografica, degli animali-mostri, all’attrazione che tigri e leoni scaturiscono negli zoo, alla scienza della conservazione dei grandi carnivori tutto è legato al desiderio di conoscere ciò che per noi può sempre essere fatale. Grazie a questo ultimo aspetto della nostra etologia un domani, forse, riusciremo ad edificare una cultura che ci permetta di coesistere con i grandi carnivori al di là di pregiudizi e psicosi collettive. Per ora, però, ha prevalso l’effetto contrario: molta della cultura pop si è nutrita delle paure ataviche per sfornare film e romanzi vincenti capaci di rinforzare tali fobie e incrementare l’ignoranza ecologica. Si potrebbe dire che film con protagonisti squali assassini, o altri mangia-uomini, non siano la causa di paure infondate ma, al contrario, funzionino in virtù di paure per lungo tempo razionali. I grandi predatori ci attraggo e ci atterriscono, ma al di là del nostro giudizio antropo-centrato rappresentano tasselli fondamentali per i sistemi ecologici in un tempo di estinzione di massa e, in più, incarnano forza, eleganza e libertà che gli ammiriamo e invidiamo. È tempo, dunque, di muoverci al di là delle fobie e dei giudizi affrettati per comprendere questi animali incantevoli e formidabili senza polarizzarsi in una mentalità collettiva schizoide che vede gli animali selvatici o come mostri assetati di sangue o come disneyane innocenti creature. La vita biologica è complessa, noi siamo complessi e il nostro pianeta lo è.

Basta con la retorica della semplicità quando si parla di coesistenza con la fauna selvatica ed in particolar modo coi grandi predatori.

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