In memoria di Edward O. Wilson

Wild Matters

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Ieri, a 92 anni, moriva il celebre biologo statunitense Edward O. Wilson.

Ho ricevuto tale triste notizia nel mentre che concludevo la visione del documentario Superare i limiti: la scienza del nostro pianeta. Ovvero in un momento nel quale ero intento a riflettere circa la realtà, sempre più vicina e inquietante, di un mondo totalmente depauperato della sua ricchezza biologica.

Da oramai dieci anni navigo tra l’immensa letteratura di Wilson, e non mi è possibile in un solo articoletto riassumere i suoi innumerevoli contributi scientifici.

Essendo la sovrappopolazione umana e l’estinzione di massa al centro di tutta la mia riflessione filosofica ed ecologica, più e più volte ho ricorso al mastodontico lavoro di Wilson in scritti e conferenze.

Soventemente, purtroppo, pensatori progressisti hanno attaccato la figura di Wilson per le sue speculazioni – dai possibili risvolti pericolosi – circa la sociobiologia, ovvero il tentativo di interpretare tutti i comportamenti umani sulla base dell’evoluzione biologica.

La sociobiologia, del resto, è un approccio all’umano sia affascinante che riduzionistico e, perciò, porta seco mille e più ambiguità e, soprattutto, ipotesi controverse.

Non è qui mia intenzione guardare agli aspetti più interessanti e a quelli più negativi della sociobiologia. Qui voglio soprattutto ricordare che Edward O. Wilson, nella sua lunghissima carriera, è stato molto più che il padre di tale criticato campo di studi.

Se aprissi oggi un manuale di ecologia generale per università, vi troverei all’interno nomi, leggi, scoperte e campi di indagine che si devono in larghissima parte al lavoro di Wilson.

Infatti, buttare via Wilson per via della sua idea di “biologizzare” le scienze umane, significherebbe azzoppare l’ecologia come scienza moderna.

Al biologo statunitense, infatti, si devono moltissimi concetti fondamentali tra i quali lo stesso concetto di biodiversità!

Un altro importante tassello nella comprensione biologica che dobbiamo a Wilson, e al matematico Robert MacArthur, è la biogeografia insulare. Tramite tale campo di indagine, oggi sappiamo che vi è una relazione – matematicamente prevedibile – tra la dimensione di un’area protetta e il numero di specie che essa può sostenere. Un dato non banale, soprattutto, per tutti i progetti di rewilding e tutela della diversità biologica.

Ancora, a Wilson si deve il concetto – a cavallo tra lo psicologico e il filosofico – di “biofilia”, ovvero la “tendenza innata a concentrare il proprio interesse sulla vita e sui processi vitali” che caratterizza Homo sapiens.

Tuttavia, vi è un concetto più recente che, a più riprese, ho preso in prestito da Wilson. Sto parlando dell’Eremocene, nome alternativo per definire l’epoca geologica che, a causa della pressione antropogenica sul pianeta, sta succedendo l’Olocene.

Molti oggi riconosco il vocabolo Antropocene come nome ufficiale di questa fase “geostorica”, altri parlano – forse con più ragione – di Capitalocene (Jason W. Moore), Wasteocene (Marco Armiero) e così via…

A mio avviso, però, sarebbe opportuno focalizzarci sul fatto che nella trasformazione del globo non vi è in ballo tanto la sopravvivenza di Homo sapiens o del pianeta Terra. Il punto focale che rende tragico come nient’altro nella storia umana il tempo presente è il totale annichilimento del mondo multispecie nella sua complessità e diversità bio-culturale.

Per farla breve, non è l’annientamento totale che dovremmo temere quanto l’Eremocene, un’epoca in cui l’alterità non umana è quasi completamente assente. Tale assenza potrebbe essere la nostra reale fine, nonché un fallimento etico che trascende ogni cornice morale sinora assunta.

In futuro analizzerò più nel dettaglio il concetto di Eremocene e le sue implicazioni filosofiche profonde, qui mi limito a chiudere ringraziando il grandissimo Edward O. Wilson per la sua vita all’insegna dello studio della vita non umana.

Natan Feltrin