La retorica del rischio, da sola, non favorirà la coesistenza con il selvatico

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La retorica del rischio, da sola, non favorirà la coesistenza con il selvatico

Il disagio ecologico, come visto in un precedente articolo, esiste.

Negarne l’esistenza o sminuirla, al contrario di quanto molti entusiasti del rewilding pensano, potrebbe essere un errore di comunicazione.

Comprendere la paura nei confronti di animali come orsi, lupi e cinghiali come una pura irragionevolezza confutata dalle statistiche non è la strada da percorrere.

Sembrerebbe ovvio mostrare, come fa George Monbiot nel suo libro Feral, che il rischio di morire tra le fauci di un lupo in Europa è minore di quello di essere colpiti da un fulmine o di perire in un incidente domestico.

Ma queste comparazioni sortiscono davvero il rassicurante effetto sperato?

Per alcuni certamente sì, però…

Fossimo tutti esseri ragionevoli, di una ragionevolezza matematica, il banale calcolo delle probabilità ci farebbe dormire sonni tranquilli… Almeno per quanto concerne i lupi!

Tuttavia, Homo sapiens è una creatura complicata e molteplici istanze muovono le sue decisioni e le sue emozioni. Dall’evoluzione biologica all’educazione, dai traumi personali alla cultura in cui si è immersi, plurimi sono i fattori che determinano la nostra percezione del rischio.

Inoltre, il “disagio” creato dall’idea di essere attaccati o di subire un danno economico/emotivo da parte di un animale selvatico non è totalmente riducibile all’idea astratta di “rischio”.

Per noi umani il “come” conta tanto quanto il “se”, ovvero le circostanze di un incidente contano almeno quanto la sua probabilità di verificarsi.

La nostra percezione del disagio non è dunque misurabile utilizzando solo due criteri: “intensità del danno” e “probabilità del danno”.

Faccio qui un esempio d’estrema banalità. Essere feriti da un orso quando si cammina in un bosco può avere un orizzonte di significato totalmente diverso per il naturalista appassionato e per l’allevatore. Nel primo caso il soggetto può dare un senso dell’accaduto che lo renda “tollerabile”, il secondo, invece, percepirà il dramma dell’episodio con un’intensità decisamente maggiore.

Banale, no? Eppure ci ostiniamo a fare comparazioni astratte come: incidenti d’auto vs aggressioni di lupi.

Le auto uccidono ben più di tutti i grandi carnivori messi assieme (e di gran lunga!), eppure la paura nei confronti di un soggetto agente autonomo ed estraneo ci colpisce nel profondo: essere sbranati da una tigre sarà sempre diverso dal morire tra le macerie di un incidente stradale e non perché nel primo caso il dolore esperito potrebbe essere maggiore.

Ciò che più ci atterrisce è l’idea di poter essere violati nella nostra identità umana da un altro soggetto, da un soggetto non-umano. Ancor di più se si tratta di una predazione, poiché essa ribalta il senso del mondo in cui siamo nati noi Occidentali (la nostra ontologia).

Da padroni del mondo, da figli di Dio, da specie dominante veniamo considerati come un animale tra altri animali, come un ammasso di proteine di cui un altro vivente vuole appropriarsi.

La violazione simbolica e psicologica che l’aggressione da parte di un non-umano può suscitare è talmente inconcepibile nella nostra moderna società che la pura possibilità, seppur remota, ci può atterrire.

A differenza di altre culture, la società moderna Occidentale ha bandito – attraverso lo sterminio e l’allontanamento sia materiale che simbolico – gli animali più pericolosi per la nostra incolumità e, così facendo, sembra aver dimenticato che Homo sapiens è pur sempre un animale vulnerabile.

Il tentativo di addossare la colpa del covid a qualcosa di puramente umano, del resto, non è che un desiderio collettivo di rimuovere l’idea che un altro vivente – un virus in questo caso – possa predarci o parassitarci a suo vantaggio.

Di fronte alla prospettiva di una violazione tanto profonda è difficile, se non impossibile, parlare di numeri. I numeri diventano freddi e sospetti poiché ciò che si teme non è la probabilità, quanto piuttosto la possibilità.

In altre parole, lo scandalo emerge non dal danno reale bensì dalla sua possibilità. Un vasto gruppo di persone non è interessato a sapere quanto è probabile essere attaccati da un lupo. Questi individui, prima di accettare la coesistenza “pacificamente”, vogliono sapere: è possibile che un lupo realmente selvatico attacchi un umano? La risposta è sì, per quanto improbabile, è possibile.

Il lavoro che si deve compiere nel dialogare con la popolazione a favore di progetti di rewilding o di coesistenza deve necessariamente affrontare l’accettazione psicologica di questa possibilità e non si può limitare ad archiviarla come “improbabile”.

Natan Feltrin

 

Per saperne di più su questi temi guarda i contenuti della RewildAcademy qui proposti:

Libro Into the (Re)Wild

Corso Into the (Re)Wild

Conferenza sull’antropofagia

 

 

Fonti:

Boitani L., Brainerd S., et al. 2002. The Fear of Wolves: A Review of Wolf Attacks on Humans. Trondheim: NINA.

Hatley, James. 2004. The uncanny goodness of being edible to bears. In Rethinking Nature: Essays in Environmental Philosophy, ed. Bruce V. Foltz and Robert Frodeman,13–31. Bloomington, Indiana: Indiana University Press.

Kruuk, Hans 2002. Hunter and Hunted: Relationships Between Carnivores and People. Cambridge: Cambridge University Press.

Monbiot, George. 2013. Feral: Searching for Enchantment on the Frontiers of Rewilding. London: Allen Lane.