SALVARE IL PIANETA O SALVARE HOMO SAPIENS?

Wild Matters

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Sovente nella narrativa ambientalista, specialmente ma non esclusivamente giovanile, ricorre lo slogan “dobbiamo agire per salvare il pianeta”. Ecologi, climatologi e altri intellettuali, spesso, guardano con diffidenza a questo approccio naíf e buonista alle problematiche ecologiche. Figure pubbliche, del calibro di Luca Mercalli, puntualizzano “la terra esiste da ben prima di noi – 4.5 miliardi di anni – e continuerà ad esistere anche dopo di noi, mentre la specie umana ha bisogno di pensare ecologicamente se vuole sopravvivere su di un pianeta in rapida trasformazione”.

In pratica, al di là dell’aspirazione quasi religiosa verso la tutela di Gaia, quello che davvero occorrerebbe, stando a molti commentatori, è un sano egoismo di specie – e specista – volto alla conservazione di Homo sapiens oltre il caos dell’instabilità ecologica scaturita dall’azione umana stessa. L’approdo finale di questo, apparentemente limpido e inconfutabile approccio, sarebbe una sorta di antropocentrismo illuminato guidato da una visione della scienza progressista e positivista. L’antropocentrismo illuminato, in un certo senso, rappresenta l’acme dell’umanesimo filosofico ed etico: capire il mondo onde creare una società umana che continui a sfruttare il pianeta in maniera duratura, ovvero sostenibile.

Prevenzione e adattamento appaiono le parole chiave di un ecologismo volto a salvare la nostra specie dai pericoli emersi dal nostro stesso benessere, inegualmente distribuito su scala globale. A mettere in pericolo Homo sapiens non sono certo i gas a effetto serra, la plastica o i fertilizzanti che usiamo per produrre cibo su scala industriale. La nemesi della nostra civiltà globale è quell’instabile tendenza alla crescita insita nel concetto moderno di benessere che trova espressione nel consumismo sfrenato dell’economia moderna e nella crescita vertiginosa della popolazione umana.

Di fronte alla mostruosità costituita dallo scenario della catastrofe ambientale, economica e politica l’approccio del “occorre lungimiranza e spirito di sacrificio onde salvare la nostra pelle” appare saggio e condivisibile. Tuttavia è qui mia intenzione suggerire che l’ambientalismo da piazza, quello dei movimenti montanti dell’ultimo periodo, nel rivendicare una giustizia ecologica in nome del pianeta – e non del solo Homo sapiens – ha intuito, forse inconsciamente, una verità profonda: non ci salveremo salvando noi stessi. In altre parole il nostro egoismo di specie, quello alla base della crisi che oggi viviamo, non  può essere semplicemente rimpiazzato da un egoismo più saggio.

L’egoismo antropocentrico, l’idea che le sole sopravvivenza e prosperità dell’umano conti in termini etico-culturali, è un’idea inconciliabile con la nostra possibilità di essere-ecologici. Alcuni, ingenuamente, pensano ancora che il mero istinto di sopravvivenza possa spingerci a raggiungere il traguardo di una comunità globale più resiliente ed in questa cornice guardano all’etica come ad un lodevole accessorio marginale all’obiettivo finale.

In quest’ottica, emerge quel concetto affascinante ma mostruoso che è la sostenibilità. Perché dovremmo guardare con diffidenza il concetto di sostenibilità? Perché con esso si indica semplicemente l’idea di una società di soggetti umani che grazie a tecnologie appropriate ed accorgimenti culturali riesce a garantirsi una longeva esistenza basata su di una “sostenibile” reificazione, mercificazione e sfruttamento delle alterità viventi. Il concetto di “servizi eco-sistemici” è forse l’emblema di questa mentalità, ancora intrisa di cartesianesimo, che divide la realtà in “esseri umani” e “ mondo non-umano, ergo risorsa”. In esso, infatti, si esprime alla sua massima potenza l’idea che mantenere gli equilibri ecologici non sia un bene in sé, bensì una necessità antropocentrica volta a garantire che la macchina-mondo continui a funzionare per noi.

Dietro l’idea “salviamo noi, che il pianeta si salva da solo” non c’è un ridimensionamento del nostro ego – noi non siamo così divini da poter realmente distruggere il pianeta o rovinarlo in maniera permanente – bensì il contrario. Potremmo davvero “salvare il pianeta”, ma decidiamo di cedere al cinismo e non farlo. Nella genuina ignoranza della volontà di salvare un qualcosa di così trascendente come il pianeta – un iperoggetto, per parlarne in termini filosofesi – rinunciamo alla possibilità di una intuizione etica fondamentale: in questa crisi non siamo soli, ma il nostro destino è un nodo intrecciato di infiniti destini e possibilità. Dal mio punto di vista non c’è possibilità di salvezza per la nostra specie se non attraverso un cammino di riconciliazione con la vita non-umana e la materia circostante. Se vogliamo mirare ad una società che sia davvero ecologica, allora urge lo sforzo immaginativo di inventare scenari di coesistenza con le altre forme di vita: la società, in questa prospettiva, diviene una comunità multi-specie.

Quindi, non si tratta di salvare Homo sapiens e nemmeno di salvare un’astratta idea di pianeta, ma di tutelare quel groviglio di trame della vita che è la biosfera. Solo quando capiremo che ogni estinzione è la fine del mondo e che le specie non sono enti fissi del nostro cosmo, ma voli di sola andata per futuri possibili, allora uno spazio d’esistenza più armonico e giusto si aprirà anche per la nostra inquieta specie. In conclusione, il timore per la nostra sopravvivenza a lungo termine su questo pianeta non può essere disgiunta da un senso di cura verso i nostri compagni di viaggio per almeno due ordini di ragione:

  • le nostre conoscenze sul mondo non saranno mai sufficienti a renderci arbitri migliori della vita stessa nel decidere cosa sacrificare e cosa mantenere su questo pianeta – banalmente non conosciamo nemmeno la maggior parte delle specie che stiamo estinguendo.
  • Se non comprenderemo che la fratellanza con le altre specie è l’unico balsamo possibile nei confronti del terrore dell’insensatezza della nostra esistenza e della sua fragilità, non saremo mai salvi. Sopravvivremo, forse, ma non vivremo.

Ben sia accolto, dunque, il desiderio di salvare qualcosa di più grande di noi poiché non si tratta di una folle impresa titanica, bensì di una comprensione etica profonda che non vi può essere vita se non condivisa.