Strade di coesistenza,
al di là della logica costi vs benefici
Vivere a contatto con la fauna selvatica comporta dei rischi, più o meno seri e più o meno trascurabili.
Per quanto possa sembrare una strategia funzionale, raccontarci che le probabilità di spiacevoli eventi sono bassissime non è sufficiente a scalfire lo zoccolo duro della vasta teriofobia contemporanea (come abbiamo discusso in un precedente articolo).
Che fare dunque?
Per ragioni etiche-ecologiche non possiamo permetterci di perdere altra biodiversità, altra bio-abbondanza, altri “cuori selvaggi”.
In un’Italia di 60 milioni di Sapiens, appena un lupo sbrana un cane, un orso entra in un giardino, un cinghiale attraversa una strada di paese… Subito si pensa a premere il grilletto, che sia per prevenzione o per punizione.
Sorvegliare e punire sembra la specialità di un atteggiamento antropocentrico ben radicato nella mente di conservazionisti, allevatori, cacciatori e istituzioni.
Del resto la filosofia del conservazionismo, rigettata dal movimento di rewilding, guarda a Homo sapiens come all’unico vero portatore di interessi e alla natura non-umana come ad una mera risorsa da gestire, seppur diligentemente (“sostenibilmente”).
In altre parole, la gestione della natura è stata fagocitata dalla gerarchia di interessi umani. L’ecologia è divenuta una branca dell’economia.
Non dovrebbe forse essere il contrario?
Non sarebbe ora, dopo quasi un secolo di riflessioni sull’etica ambientale e animale, di riconoscere realmente i nostri doveri verso le altre specie?
Per essere concreti: se Canis lupus si rivelasse un potenziale mangiatore di pecore, cani o bambini, saremmo forse autorizzati a eradicarlo completamente?
Questa domanda è fondamentale per capire le implicazioni del con-vivere affianco a viventi autonomi.
Basta con la storia che statisticamente gli elettrodomestici sono più letali dei grandi carnivori europei, questa retorica convince solo i già convinti.
Guardiamo ai fatti.
Canis lupus è un potenziale predatore di bestiame, è un potenziale pericolo per animali domestici come cani e gatti e, sicuramente, prima o poi finirà per ammazzare qualcuno. Non si tratta di “se”, ma di “quando”.
Lo ho realmente detto – che sensazione liberatoria! – ho spudoratamente infranto il tabù dei bravi conservazionisti. Ovvero, ho affermato che gli animali possono essere realmente pericolosi…
Ma questo è solo un pezzo del mio pensiero, che isolato è persino dannoso, l’altra parte suona così: “chissenefrega”.
Brutale vero?
A) La fauna selvatica ha causato, causa e causerà sempre incidenti (a volte tragici);
B) Dobbiamo farcene una ragione altrimenti non ci sarà possibile conservare neanche un insetto.
Sino a qui la mia potrebbe essere solo una constatazione banale, ora bisogna arricchire questa riflessione con qualche prospettiva.
Caduta la tentazione di negare la rilevanza degli incidenti con gli animali selvatici, come si può vincere l’opinione pubblica a favore di una coesistenza con essi?
La strategia più efficace, diffusa e studiata – nonché suggerita da George Monbiot in Feral – è il ragionare in termini di costi vs benefici.
In altre parole, bisogna riconoscere il disagio ecologico che animali come lupi, orsi e cinghiali ci causano, ma bisogna considerarlo come un male minore e necessario a fronte di un guadagno in termini estetici, di servizi ecosistemici, di marketing e molto altro.
Addirittura, onde tentare un superamento dell’antropocentrismo classico, sono stati fatti studi su costi vs benefici cercando di dare un valore matematicamente misurabile a istanze etiche.
Una mossa necessaria, ardita, goffa e, forse, riduzionistica. Infatti, il valore intrinseco di una specie, di una popolazione o di un singolo animale è stato tradotto in “quanto si sarebbe disposti a spendere” per tutelare tale diritto all’esistenza.
Questo riduzionismo si basa su di una traduzione dal mondo dell’etica a quello dell’economia che per sua natura è intrinsecamente fallace e riduzionista.
Il tentativo di rendere i benefici esternamente più rilevanti dei disagi, però, si è mosso anche su piani più sottili.
Così, per meglio convincere il grande pubblico sempre più organizzazioni di conservazione e rewilding hanno adottato una strategia di comunicazione pericolosa: parlare di “sfide” e non più di “costi”.
La differenza retorica è chiarissima. Le sfide si affrontano e si risolvono. I costi, invece, mutano ma permangono.
Nonostante attivisti e organizzazioni parlino sempre più di sfide, bisogna essere onesti: la convivenza presenta sia sfide che costi e con i costi bisogna essere disposti a prospettive di lungo termine.
Quindi, ricapitolando.
Che vengano minimizzati – retorica del rischio minimo – o che vengano considerati temporanei – retorica della sfida – i costi della coesistenza esistono e sono accettati e accettabili solo se comparati ai benefici che altri non-umani portano alle comunità umane.
Ma se il disagio ecologico fosse qualcosa di più che un semplice “costo”?
Qui non mi riferisco all’idea “risk is fun” per cui un po’ di eccitazione e timore quando si va per boschi ci fanno bene come cura dal “tedio ecologico” della società moderna.
Qui mi riferisco a qualcosa di più profondo, al di là del bene e del male, che il disagio ecologico può portare seco.
E se l’essere messi in questione da altri animali, soggetti agenti e liberi, ci portasse a comprendere la nostra identità umana in maniere differenti e inaspettate?
Approfondirò questo tema nel prossimo articolo…
Natan Feltrin
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Fonti:
Boitani L., Brainerd S., et al. 2002. The Fear of Wolves: A Review of Wolf Attacks on Humans. Trondheim: NINA.
Hatley, James. 2004. The uncanny goodness of being edible to bears. In Rethinking Nature: Essays in Environmental Philosophy, ed. Bruce V. Foltz and Robert Frodeman,13–31. Bloomington, Indiana: Indiana University Press.
Kruuk, Hans 2002. Hunter and Hunted: Relationships Between Carnivores and People. Cambridge: Cambridge University Press.
Monbiot, George. 2013. Feral: Searching for Enchantment on the Frontiers of Rewilding. London: Allen Lane.