Poi ti spiego perché ci sia una Ele con in mano il nostro libro Orme Selvagge (che se non hai sei orribile)
Tanti soprattutto nei librucoli e nei corsetti di emporwement spuzzi (il nostro Reconnection è molto meglio. Si non c’è limite alla quantità di hint commerciali che posso infilare in un post di blog come questi) usano come metafora per il decision making il gettarsi nell’acqua gelida.
Tu sei lì. Che ci pensi. E più ci pensi meno ti butti. Quindi il succo del prendere decisioni è buttarsi e via.
Sni.
Bah.
Meh.
Balle.
Il decision making RICHIEDE quel tuffo, quel lancio plastico del cuore oltre l’ostacolo ma non è una metafora adeguata perché non delinea quella che secondo me è invece la fase peggiore. Quella del “fatemi scendere” appunto.
Se sei mai stato su una montagna russa o comunque una giostra adrenalinica sai di che parlo. Quella lunga, percettivamente interminabile, sferragliante SALITA prima della partenza del giro.
È LÌ che stai peggio. È lì che ti chiedi quanto sarà socialmente accettabile urlare che sei malata di cuore e te lo eri scordata. È lì che pensi “chi me lo ha fatto fare” “sono ancora in tempo”. È lì che ti maledici in tutte le lingue del mondo.
La cosa peggiore è che nella vita di tutti i giorni questa fase la maggior parte delle volte è reversibile e quindi la resa è dietro l’angolo. Se sei furbo ci vuole nulla a pensare mille motivi per tornare sui propri passi e mille scuse da dare a chi ci circonda.
Io stamattina mi sono detto che ho troppa roba da fare, che rischio di non fare tutti i pacchi che devo, che ho una miriade di lavori non terminati in lab, che ci sono le piante da curare, la macchina da portare a riparare. Mi sono detto che sarà difficile trovare sempre una foto adatta, che potrei non riuscire a fare domande calzanti, che l’interesse del pubblico calerà e mi troverò a fare post in cui parlo da solo. Ho iniziato a scartabellare le scuse che potevo accampare, il modo in cui potevo ritirarmi.
QUESTO è il passaggio fondamentale nel decision making. Perché c’è una foto di Ele con il nostro Orme Selvagge? Perché quella salita sferragliante è durata MESI. Potevo io sottrarre così tanto tempo alle ossa? Il materiale era sufficiente? Quanto lungo potevamo scriverlo? Avrebbe venduto abbastanza? La gente lo avrebbe spinto? Sarebbe stato accolto bene dai razionalisti e male dagli esoteristi? Viceversa?
E allora che cavolo fai? Natan in uno dei rarissimi complimenti che mi ha fatto nel 2021 mi ha detto: sei la persona migliore che conosco perché ci provi sempre, vai avanti sempre anche contro ogni previsione.
Ecco. ESATTO.
Non esiste. Si rimane nel trabiccolo sferragliante e si resiste a tutta la salita sperando poi di sopravvivere alla corsa sfrenata che ne consegue e probabilmente alla successiva salita sferragliante. Mi dicono si chiami VITA o quantomeno una Vita degna di essere chiamata tale.
Tutto qui? No. Riflessione finale che porterà alla domanda così ci portiamo a casa anche il secondo giorno, ne mancano solo 28 (aiuto).
La salita del “voglio scendere” secondo me si può superare in due modi. Dando per assodato ovviamente che tu non sia un sub homo sapiens che si vuole limitare a sopravvivere.
Trattieni il respiro, chiudi gli occhi, non ci pensi finché non passa. Fai il velocista. Come l’appassionata di montagna che quando vede il pezzo di salita più ripida e tu stai già bestemmiando in turco aprendo la valvola dell’ossigeno scatta in avanti come un camoscio e sprinta su per 100 metri verticali al 15% di pendenza. Insomma essere centometrista. C’è una fase difficile? Mi butto a fiato sospeso passando oltre. Rispettabile.
Ma io sono grosso e pesante e adotto un approccio diverso e, credo, leggermente più raro. Io rallento e me la gusto questa fase. Di solito mi aggiorno sulle news al mattino mentre bevo il caffè e invece stamattina sono stato lì a crogiolarmi nelle ansie evocate da questo progetto, una ad una. Come uno scacchista esperto (quale sono, lo sapevi?) cerco di sfruttare questo tempo così ricco di processi mentali per preparare le prossime mosse, tutte le contromisure possibili. Quando faccio davvero le montagne russe nella salita, in modo quasi masochistico, osservo il percorso che ci aspetta, provo a pensare quale sarà il punto peggiore, sposto i miei appoggi e sistemo al meglio la schiena. Insomma preferisco fare il maratoneta e destreggiarmi lentamente nelle difficoltà e nelle paure pre azioni. Ci vuole più tempo, a volte sembra interminabile ma d’altra parte se fai il centometrista e poi devi correre per duecento metri invece che per cento come fai?
E quindi eccoci qua, secondo giorno andato. Ben due info commerciali infilate e la domanda pronta.
Sei velocista o maratoneta? E se proprio ti senti in vena di chiacchiere… perché pensi sia l’approccio migliore?
p.s grazie a tutti per le risposte ieri.
p.p.s QUI non pubblicherò altro quindi per un mese tutti i post saranno recuperabili.
p.p.p.s per scelta stilistica non pianifico da un giorno all’altro, improvviso il post AL MASSIMO durante il caffè, non prima.
p.p.p.p.s Non scendete, MAI.
RISPOSTE:
Nella vita di tutti i giorni mi sento maratoneta, devo analizzare ogni minimo dettaglio, arrivando sia a “smontare” ogni idea ed allo stesso tempo esaltarla a mille come se fosse la migliore mai avuta.
Mi godo ogni passaggio felice ed infelice del mio percorso, proprio come una passeggiata in montagna.
Periodicamente però arriva la “muta”. Un bisogno irrefrenabile di cambiamento che mi fa prendere le decisioni da velocista che mi permettono quasi sempre di vivere esperienze ed emozioni totalmente nuove e mi hanno permesso di scoprire nuove passioni e persone.
Fossi stata sempre maratoneta non sarei qui.
Come in tutte le cose trovo che l’equilibrio nei due differenti approcci sia la scelta migliore che potrei fare per me stessa, ma ho ancora del lavoro da fare
Suppongo d’essere il più vicino possibile al maratoneta. Anche se non posso definirmi tale. Non mi godo l’ansia della salita, mi osservo nel farla. In pratica osservo il corpo agire, nella relativa consapevolezza di non essere quel corpo. Annullata la paura del risultato mi godo la salita come la discesa in egual misura.
Sempre scegliendo le parole di un altro:
“Comunque vada non congratularti troppo con te stesso, ma non rimproverarti neanche. Le tue scelte sono scommesse, come quelle di chiunque altro. ” dal monologo finale del film ‘big kauna’.
Nella vita ci sono sfide di cui ho bisogno ma che non ho esattamente voglia di affrontare. Vuoi per paura, vuoi perché non ci credo molto. Allora in questo caso credo che l’approccio migliore sia quello del maratoneta. È importante concentrarsi, dosare le energie, analizzare ed aver pazienza. Come un felino in una battuta di caccia notturna, quando in ballo c’è non solo la sua sopravvivenza, ma anche quella del suo cucciolo, che nel mio caso è la mia piccola bambina disadattati.
Ma quando in qualcosa ci credo, quando qualcosa la voglio davvero, quando la salita è stimolante e soprattutto quando sono sicura che ce la farò perché ho l’energia necessaria, a quel punto via con la tecnica del velocista, carico come un ariete spavalda, convinta di poter sfondare qualsiasi tipo di muro senza accusare la stanchezza. In questi casi ho la sensazione che sia quella stessa bambina di cui normalmente mi prendo cura a prendere le redini, ed io gli cedo il posto volentieri.